"The Brutalist" è un film brutto, senza troppi giri di parole.
E allora, mi chiedo, come ha fatto un'opera del genere ad attirare così tanta attenzione, fino al punto da vincere premi Oscar su Oscar?
Una forma senza sostanza
Partiamo dall'essenziale: sì, è il film più brutto dell’anno – l’ho già detto? Con un budget di appena 10 milioni di dollari, abilmente nascosto da una fotografia elegante quanto prevedibile, la pellicola è stata girata in VistaVision e pellicola 70mm per aggiungere un senso di spessore visivo a una trama sostanzialmente inesistente. Il risultato? Una sequenza di immagini chiaroscurali che imitano pedissequamente lo stile brutalista, grandangoli esasperati e inquadrature dal basso che, se da un lato enfatizzano la monumentalità architettonica, dall'altro fanno risaltare fin troppo il profilo aquilino del povero Adrien Brody. Fossi il suo agente, inizierei a considerare una querela contro il direttore della fotografia Lol Crawley.
Tutto sembra costruito per mascherare un budget risicato e per enfatizzare l’arroganza intrinseca del protagonista, László Toth, e del regista Brady Corbet.
Il film spiegone
Parlo di arroganza, perché uno degli elementi fondamentali dell'esperienza cinematografica, come di quella letteraria, dovrebbe essere lasciare allo spettatore la libertà di esplorare autonomamente il testo. "The Brutalist" sceglie invece il cammino opposto, spiegandosi incessantemente, quasi insultando l’intelligenza dello spettatore che vorrebbe partecipare attivamente all'esperienza. Negare al pubblico lo spazio interpretativo non è soltanto una scelta discutibile, ma un atto di arroganza creativa.
Dai primi minuti, lo spettatore non trova spazio per riflettere o interpretare la psicologia del protagonista, perché ogni dettaglio della sua presunta interiorità viene continuamente e ostentatamente esibito.
La trama poggia interamente sulla premessa della sofferenza di un ebreo sopravvissuto alla Seconda guerra mondiale ed emigrato negli Stati Uniti, un dolore certamente condiviso da milioni di altri esseri umani. Tuttavia, questa esperienza drammatica non basta, da sola, a costruire il mito di un architetto brutalista come metafora dell’abbrutimento di una generazione traumatizzata dalla guerra. Quello che otteniamo invece è una figura odiosa e profondamente narcisistica, sgradevole nelle interazioni personali: passivamente aggressivo con chi lo aiuta, servile con chi lo idolatra e distante con chi lo ama. Davvero dovevamo empatizzare con un simile "genio"? Fatemi il piacere.
Per nascondere la debolezza evidente del protagonista, gli autori lo immergono in una narrazione cupa, estetizzante, sperando forse che il pubblico si distragga empatizzando con il contesto piuttosto che con la persona. Un errore grossolano, perché il cinema non vive solo di estetica, ma di equilibrio tra forma e sostanza.
La sofferenza diventa presto una semplice scusa per mostrare il protagonista in atteggiamenti discutibili: urinare nelle vasche da bagno degli amici, frequentare prostitute, drogarsi. Tutto questo dovrebbe definire un personaggio tormentato e complesso, ma finisce solo per renderlo superficiale e insignificante.
La pellicola cerca, con risultati confusi, di affrontare temi come l'utilitarismo e l'egualitarismo, attraverso il rapporto artificiale tra Toth e Gordon, quest’ultimo ridotto a una comparsa marginalizzata all’ombra del genio bianco. E non venitemi a dire che proprio in questo vuole riflettere la realtà storica, perché sarebbe una debole scusa. Il risultato è un tentativo goffo e superficiale di affrontare la complessità del benessere collettivo e delle disuguaglianze sociali.
Sintetizzando: lo spazio di dialogo tra spettatore e autore è completamente azzerato. È un film falsamente progressista, che se davvero lo fosse offrirebbe molteplici possibilità interpretative; invece vuole solo imporre una visione unica, verticale e impermeabile al confronto.
Perché allora tanto successo?
Per tre ragioni principali: anzitutto, per le stesse motivazioni che spingono lo Studio Ghibli a produrre documentari che spiegano i loro film. È una tendenza che evidenzia una crisi di fiducia nella capacità dello spettatore di confrontarsi autonomamente con contenuti complessi, una sorta di paternalismo culturale che mira a eliminare ogni libera interpretazione.
In secondo luogo, Netflix, piattaforma leader mondiale dello streaming, ha progressivamente abbandonato una strategia inizialmente efficace, nella quale film commerciali di grande richiamo finanziavano opere più audaci e sperimentali. Questa politica aveva in passato permesso un equilibrio tra blockbuster e cinema d'autore, sostenendo così una diversificazione culturale e creativa oggi gravemente compromessa. Netflix ha virato nettamente verso una politica generalista e superficiale, preferendo contenuti semplici e immediatamente fruibili. Quando film come "Il ragazzo e l'airone" risultano troppo sofisticati o enigmatici per il pubblico di massa, Netflix interviene con prodotti esplicativi collaterali, quasi temendo che la complessità sia un ostacolo anziché una risorsa preziosa. Questo riflette una visione riduttiva e limitante del rapporto tra opera e spettatore.
La distilleria delle idee
La terza ragione è più politica: viviamo in un’epoca dominata da contenuti semplificati, già interpretati e pronti al consumo immediato, una strategia che mira ad annullare ogni sforzo interpretativo. È come una grande distilleria delle idee, dove il pensiero complesso viene filtrato e ridotto a una sostanza concentrata, facilmente consumabile, che viene somministrata allo spettatore come ai votanti di un partito politico. Questo processo impedisce il naturale dialogo e il confronto, riducendo le possibilità di arricchire il dibattito culturale. Eliminando ogni ambiguità, si nega la possibilità che le idee possano permeare reciprocamente, stratificarsi e maturare attraverso il confronto. Così il pubblico, come l'elettorato, viene privato della possibilità e, ancor peggio, del desiderio stesso di pensare autonomamente.
"The Brutalist" incarna perfettamente questa "distilleria delle idee" contemporanea: un film didascalico, manierista, superficiale e, in fin dei conti, insopportabile.
Se volete davvero comprendere l'America contemporanea attraverso un cinema profondo e sincero, dedicate 80 minuti a "Dark Night" di Tim Sutton, invece dei 180 interminabili minuti di "The Brutalist".
Ma poi perché la Statua della libertà al contrario? I titoli di coda al contrario?
C’ha ragione Bordone, pur di dire che una cosa è arte ci si inventerebbe di tutto!
Ah, e per inciso: Adrien Brody aveva già dato tutto ne "Il pianista". Possiamo dire che basta così.
A presto,
Sam