Su David Lynch e Lacan
Mettere insieme i frammenti
Ci sono momenti cardine nella storia di ognuno di noi: cesure fra ciò che eri e ciò che diventerai. Quando ti trovi su quel confine, in quella terra di totale rivoluzione e cambiamento, dove non hai ancora abbandonato del tutto il “prima” e devi ancora abbracciare il “domani”, proprio lì senti che esiste qualcosa dentro di te che vive slegato da ciò che pensi o credi di essere. In quella terra e in quel momento — non l’unico, sia ben chiaro, poiché ne esistono molteplici nella vita di un individuo — senti l’Io, avverti una nuova voce dentro di te.
Per me, uno di quei momenti è stato quando alcuni amici, anni fa, mi hanno “presentato” David Lynch.
“Presentato” è il termine giusto, perché me ne parlarono come di un loro amico di lunga data, con il quale avevano condiviso momenti profondi, unici, a tratti irripetibili.
Per me era impensabile che si potesse parlare di un regista — o di un artista — in quella maniera. Normalmente l’artista rimane al di là della barricata, vive in un mondo etereo. Per loro, invece, no: lui era lì con noi, anche mentre mi raccontavano le gesta sul set durante le riprese di Blue Velvet o di come tenne mezzo Occidente incollato al televisore con Twin Peaks (storia confermatami anche dai miei genitori, il che mi fa pensare che realmente ipnotizzò tutti).
Eravamo in un locale di Trastevere, in una via interna non lontana da piazza Trilussa. Seduti a un tavolo rotondo, in tre, con una bottiglia di vino rosso.
Ci salutammo poco dopo, e andai dritto a casa per vedere qualcosa di questo regista a tratti “mitico”
Iniziai con Lost Highway e non riuscii più a liberarmi di lui. Anzi, feci mia l’idea della frammentazione del sé e della necessità di trovare una forma al proprio Io. Quando, nel film, Fred — dopo l’arresto — si trasforma in Pete, in me si accese una luce.
Mi sono sentito compreso, in qualche modo, da un autore che non mi conosceva e che di certo non si rivolgeva solo a me. Sentii che quel mio leggero senso di spaesamento o disallineamento non era un errore, ma una frammentazione. Compresi — o meglio, intuii (la vera comprensione sarebbe arrivata più avanti, grazie alla psicoterapia) — che Fred e Pete vivevano dentro di me, come in ognuno di noi.
Ragione e desiderio. Volontà e applicazione.
Il tutto ben amalgamato con una dose di onirico e simbolico.
L’Uomo Misterioso di Lost Highway (interpretato da Robert Blake) è la sintesi di tutto questo. Un’entità che riesce, con la sua handycam, a riprenderci dall’esterno per restituirci un’immagine di noi carica di inquietudine, data dalla domanda: “Chi è, o cos’è, che mi sta guardando?”. Forse siamo noi stessi a farlo, ma ci arriviamo tra poco.
Per me, l’Uomo Misterioso completa la ricerca degli strati dell’animo umano e assume tre possibili significati nel film, che possiamo estendere anche alla realtà analitica, prendendo in prestito il concetto di “stadio dello specchio” di Lacan:
1. Il super-io, che sorveglia e giudica i pensieri e le azioni dell’individuo.
2. Il destino inevitabile: la struttura circolare del film ci invita a riflettere sulla finitezza della vita e su come, in vari momenti, possiamo vivere una sorta di “morte dell’anima”.
3. La frammentazione dell’identità: una parte che crediamo rappresenti il tutto, ma che ci trae in inganno facendoci pensare di sapere chi siamo, salvo poi non riconoscerci più una volta davanti allo specchio.
Se per Lacan esistevano tre registri (immaginario, reale e simbolico), lo stesso vale per Lynch, che ne ha fatto la spina dorsale della sua arte. Ossessionato dalla ricerca dell’identità e dallo studio di ciò che la nostra mente cela dietro la “recita” della vita, il regista si è addentrato nel mondo della meditazione trascendentale, uscendo da quell’esperienza pieno di simboli che raccontano la sua frammentazione e il suo personale “specchio”.
Con Lacan, l’infante tra i 6 e i 18 mesi vive “la fase dello specchio”. Durante questo stadio, il bambino vede la propria immagine riflessa e la riconosce come sé stessa: è un momento di gioia pura, perché per la prima volta egli ha un’immagine unitaria di sé (fino a quel punto, il neonato vive il proprio corpo come un insieme di impulsi e sensazioni disconnesse).
Qui, però, avviene la “magia” che da Lacan ci riporta a Lynch. Dopo la fase del riconoscimento, avviene quella del disconoscimento (méconnaissance), poiché il bambino vede un riflesso esterno e non il vero Sé. Lacan distingue fra l’Io e il Sé (Je e Moi), ma non è tema di questa newsletter. Ciò che conta è che questo processo genera una tensione fra ciò che il soggetto è e ciò che desidera essere, rivelando la sua realtà frammentata. L’immaginario prende spazio per colmare i vuoti fra i diversi “pezzi” di sé, e il simbolo diventa la resina che tiene insieme il tutto.
Su questi tre registri, Lynch costruisce tutta la sua cinematografia e tutto il suo immaginario, offrendocelo quasi come un manuale.
La morte di David Lynch è solo un simbolo: per tutta la vita ha disegnato un mandala, che poi ha spazzato via, restituendosi a quell’universo caotico che ha sempre cercato di descrivere senza mai volerlo davvero controllare.
Rimarrò ancora per un po’ a sognare a occhi aperti, immaginandolo mentre raggiunge Alvin Straight sul suo tagliaerba John Deere, e le loro sagome si fondono nella luce di un’alba accecante.
Buon viaggio!
Compito per il Weekend: Respirare per 10 minuti, sentire dove si trova il tuo copro e vedersi dall’alto non come isola ma come arcipelago.
Se ti va di guardare qualche film di Lynch, qui sotto trovi un elenco completo:
• Eraserhead (1977)
• The Elephant Man (1980)
• Dune (1984)
• Blue Velvet (1986)
• Wild at Heart (1990)
• Twin Peaks (Serie TV, 1990-1991)
• Twin Peaks: Fire Walk with Me (1992)
• Lost Highway (1997)
• The Straight Story (1999)
• Mulholland Drive (2001)
• Inland Empire (2006)
• Twin Peaks: The Return (2017, miniserie TV)





