Parliamo di Adolescence
Per facilitare la lettura di questa newsletter, vi presento un indice dei temi trattati:
• Tecnica cinematografica utilizzata (AKA piano sequenza)
• Storia e narrazione della serie
• Temi affrontati
• Le colpe dei padri
IL PIANO SEQUENZA
Iniziamo con un nome fondamentale: André Bazin. Se il termine “piano sequenza” esiste, è merito suo. Bazin lo coniò per descrivere il cinema di Orson Welles – chissà se in futuro usciranno altre monografie sui grandi registi, fatemi sapere se l’idea vi interessa. Dopo aver visionato Quarto potere (Citizen Kane, 1941) di Welles, Bazin definì e ampliò il concetto, imprimendogli un valore ontologico che cercava di ispirare un linguaggio cinematografico improntato al realismo, in cui l’intervento stilistico dell’artista risulta quasi impercettibile. Difensore del realismo e amante del cinema italiano del secondo dopoguerra, fu anche artefice di quella che, nella critica, rimarrà per sempre la Nouvelle Vague francese.
Il suo impegno per una narrazione autentica, basata sulla realtà espressa in immagini e sequenze, ha determinato la nascita di un concetto che si è evoluto lungo la storia del cinema dagli anni ’50 ad oggi – si pensi, appunto, a Adolescence.
Cos’è un piano sequenza?
Si tratta di una tecnica cinematografica caratterizzata da una ripresa unica, continua e ininterrotta, priva di tagli, capace di abbracciare un’intera scena o sequenza. Talvolta si utilizza per girare un intero film – come in 1917 di Sam Mendes o Birdman di Iñárritu – mentre in altre circostanze serve a enfatizzare specifici momenti della narrazione, conferendo loro un’immediatezza e un realismo maggiori.
Pensiamo, ad esempio, alla sequenza iniziale di The Revenant, in cui l’attacco degli indiani contro l’invasore bianco, venuto a derubare terra e risorse, conduce alla drammatica lotta in cui il protagonista, interpretato da Di Caprio, viene aggredito da un orso. Senza approfondire la simbologia dell’animale, vi rimando a Il cacciatore celeste di Roberto Calasso.
Non possiamo tralasciare il contributo di Orson Welles, che in Citizen Kane ci ha donato un modello ispiratore: nella scena in cui il giovane Charles Kane gioca nella neve all’esterno, mentre all’interno si consuma una discussione cruciale tra i suoi genitori e il banchiere Thatcher, la macchina da presa posizionata in modo da catturare contemporaneamente interno ed esterno – grazie anche a una notevole profondità di campo – permette di stratificare il racconto e di far emergere molteplici livelli di significato.
Questa tecnica consente di narrare diversi momenti, stratificare la storia e rivelarne il contesto, lasciando allo spettatore il compito di interpretare i simboli disseminati dall’autore come “briciole” da seguire.
Qui si evidenzia una delle principali criticità di Adolescence: la serie non riesce a sfruttare appieno il potenziale del piano sequenza, affidandosi maggiormente alla recitazione, anziché alla tecnica.
Quattro episodi di circa un’ora, mesi di prove e riprese – spesso divise tra mattino e pomeriggio – hanno condotto a una produzione che si accontentava di “estrarre il meglio” dalle giornate di riprese.
È importante distinguere tra la volontà dell’artista di esprimersi attraverso un mezzo tecnico e quella di una multinazionale, per la quale il marketing impone forme narrative atte a garantire una presenza costante degli utenti sulla piattaforma. (Di Netflix ho già parlato in una precedente mail, reperibile su Substack.)
Qual era dunque l’intento degli ideatori? Raccontare al meglio il soggetto? Far trasparire lo strascico emotivo di un omicidio? Trasmettere il freddo delle 6 del mattino quando qualcuno viene arrestato? O esprimere la rabbia di una comunità, la frustrazione di una famiglia, la disperazione?
Le tematiche proposte potevano essere esplorate con altre tecniche narrative? Il piano sequenza, come già detto, serve a far immergere lo spettatore nella realtà di un momento; ma come si fa a rappresentare la realtà in un cinema di finzione, dove si tende a far dimenticare che ciò che viene mostrato è frutto di una sceneggiatura? Con il piano sequenza o con lunghe inquadrature fisse!
Ed è proprio qui che Adolescence non sembra riuscire: la bellezza del cinema, e la grandezza dell’artista, risiede nella capacità di scegliere dove, come e quando narrare una storia, modellando fabula e intreccio secondo la propria volontà e guidando lo spettatore verso il ruolo che si è deciso per lui. Dove porto lo spettatore? Questo deve chiedersi il cinema di finzione, altrimenti è meglio girare un documentario.
Adolescence appare così come un’agonia in quattro puntate, in cui l’adozione di una tecnica che, se ben impiegata, avrebbe potuto funzionare solo in determinati momenti, risulta mal calibrata. Per sostenere un piano sequenza della durata di un’ora, occorre una narrazione particolarmente densa, c’è sennò il rischio di dover inventare (scrivere) una coreografia inutile che parta da una scuola gremita di adolescenti e termini in un sobborgo inglese, il tutto di corsa.
In conclusione, relativamente all’uso della tecnica, Adolescence non si configura come un capolavoro; è un prodotto di qualità, sì, ma non eccelle nella grandiosità.
Ricordiamoci che, se la tecnologia ci ha donato macchine da presa più leggere, potenti e integrate da stabilizzatori, non dobbiamo utilizzarle per creare opere mediocri. La tecnologia deve servire la nostra immaginazione, non limitarla.
DI COSA PARLA ADOLESCENCE (SPOILER ALERT)
Adolescence racconta di un omicidio compiuto dal protagonista, Jamie, un tredicenne della periferia britannica. Il ragazzino ha ucciso una sua coetanea e, nel primo episodio, tutte le carte vengono messe in tavola: la verità è chiara, l’assassino è lui.
Ma qual è il movente? Nelle successive tre puntate l’attenzione si concentra su questa domanda, lasciando uno spazio apparentemente vuoto – forse volutamente – tanto che, alla fine della serie, si capisce che si è parlato di incel, senza però svilupparne pienamente il concetto. Di cosa parla, dunque, questa serie? Dell’omicidio, del movente o di una radice primordiale? Essa tenta di affrontare tutte e tre le dimensioni, sebbene in maniera piuttosto superficiale; la terza puntata, comunque, risulta la più intrigante – se si riesce a superare la Motion sickness del piano sequenza, che alterna movimenti in senso orario e antiorario.
La terza puntata, in cui Jamie incontra una terapeuta, è particolarmente interessante perché lascia al pubblico ampio spazio interpretativo. Sappiamo di cosa è accusato il protagonista, sappiamo che ha commesso l’omicidio (anche se non vi convince del tutto) e si intravede un possibile legame con una sottocultura incel. La terapeuta diventa, in un certo senso, una sorta di tavola Ouija: tramite lei si pongono domande cruciali, non tanto per comprendere il movente che lo ha spinto a uccidere, quanto per capire come si sia arrivati a quella situazione. Non ci interessa solo il tema del bullismo, ma si scava in profondità, interrogandosi sul rapporto con il padre. Sì, la domanda viene posta e la reazione di Jamie è intensa: confuso sui concetti di mascolinità, mai esperito sessualmente, forse incerto sulla propria identità, è probabile che la figura paterna lo abbia segnato negativamente, comportandosi in maniera violenta anche nei confronti della madre e della sorella. Scopriremo in seguito che no, non è stato un violento. Non più o meno di un “normale” padre o madre se è per questo.
Dopo l’incontro con la terapeuta, la tensione narrativa quasi ci costringe a fare una pausa, tanto da farci sentire contaminati da quella stessa angoscia. Contaminati da Jamie.
Facciamo un breve riepilogo degli elementi narrativi lasciati in sospeso nella serie fin qui:
• La famiglia della ragazza uccisa
• La ragazza uccisa
• L’amica della ragazza morta che aggredisce uno degli amici di Jamie
• Le emoticon su IG
• Il figlio del detective
• La figura femminile all’interno del distretto di polizia
• La collega del detective che gestisce l’indagine
• La madre di Jamie
• La sorella di Jamie
È quasi come se per rimediare a tutto quello che avevano lasciato a terra, in una notte di pioggia, sceneggiatore e regista si fossero scambiati una telefonata in cui si domandavano:
“Ohi mate, ma la sorella e la madre? Il padre come lo sistemiamo? E il passato dei genitori – come si sono conosciuti, dove, la sorte della sorella, e il dopo arresto?”
“Dunno mate, è tardi; mettiamo tutto in una sola puntata e basta. Ti devo attaccare che c’è il Dottor Who in televisione – avrei sempre voluto scrivere una puntata per loro.”
Alla fine, rimane la domanda: perché questo ragazzino ha ucciso lei? Come si chiama la ragazza morta? Sembra non essere così importante alla fine. E, così, il gesto viene minimizzato: il papà è andato a portare dei fiori sul luogo dell’omicidio, ancora una volta, ci si sente sollevati. Abbiamo fatto il nostro dovere!
La quarta puntata è forse la più interessante, perché risponde e fa eco alla terza, chiudendo il cerchio narrativo di un episodio che Jamie racconta alla terapeuta. Da bambino, durante una partita di calcio, sbagliò un tiro che fece ridere gli spettatori: cercava lo sguardo del padre, ma questi, guardando altrove, sembrava vergognarsi di lui. Nell’ultima puntata, il padre racconta la stessa scena alla moglie, in lacrime, spiegando di aver fatto di tutto per evitare di incrociare lo sguardo del figlio, poiché sentiva di provare vergogna.
La puntata risulta molto densa e interessante, piena di avvenimenti e disavventure il tutto incentrato intorno al compleanno del padre.
Abbiamo il furgone imbrattato, dei ragazzini che lo insultano, il viaggio al negozio per comprare la vernice per sistemare il furgone, la storia di come si sono conosciuti i due genitori, la scena nella stanza da letto dove loro due piangono confrontando le loro “colpe” come esempi di vita. Forse questa è l’unica puntata dove il piano sequenza ha veramente senso.
TEMI TRATTATI
La serie ha il pregio di toccare temi delicati e attuali, sebbene non condivida pienamente il modo e la rapidità con cui li espone. Questo probabilmente è dovuto al fatto che la serie non è concepita per un pubblico italiano, poco abituato a una trattazione profonda di certi argomenti, ma per uno spettatore anglosassone, più familiare con i concetti di manosfera, sottocultura incel (involuntary celibate), attivisti per i diritti degli uomini, movimento “men going their own way” e pick-up artist.
Ne hanno di sicuro sentito parlare: dal 2014, quando Elliot Rodger (22 anni) uccise 6 persone e ne ferì 14 in California, pubblicò un video su YouTube in cui spiegava il motivo delle sue azioni, collegandole alla cultura incel e dichiarando l’intenzione di punire tutte le donne che lo avevano rifiutato.
L’America e il mondo anglosassone tendono ad accelerare sia il pensiero positivo che quello negativo, esaltando il peggio e raggiungendo un pubblico vastissimo. Inoltre, la comunicazione online, soprattutto dalla prima elezione di Trump, si è polarizzata attorno a concetti – come il “feee speech right” – spesso mal interpretati, lasciando spazio a forum, siti, video e podcast radicali, capaci di rafforzare una visione che riduce la donna a oggetto di soddisfazione del desiderio maschile.
In questo contesto, il femminismo, la libertà personale e sessuale, e la ricerca di una vita migliore vengono percepiti come un muro invalicabile che separa l’uomo dalla sua ambizione di serenità. Le crescenti libertà acquisite dalla donna fanno sì che molti uomini si sentano privati della possibilità di “conquistare” la donna, percependo così una perdita delle proprie prerogative.
Non sorprende, quindi, che molti uomini siano già abituati a sentire discorsi sessisti legati alla sottocultura incel, fenomeno fondato su pregiudizi e radicalizzazioni tipiche della cultura maschile.
I problemi attuali sono molteplici: in Italia si sta diffondendo una cultura incel di cui si parla poco – anche perché la politica non ne favorisce la diffusione – e gli algoritmi, bombardandoci di video su dieta, allenamento e “consigli” per conquistare una donna, contribuiscono a radicalizzare il discorso. La sessualità viene ridotta a un mero atto di conquista, e il corpo femminile diventa il simbolo di un desiderio da soddisfare. Ciò porta a una banalizzazione del sessismo, che rischia di non essere riconosciuto come un problema reale dalla maggior parte degli uomini. Per molti di noi, forse tutti, il discorso fin qui non stona.
Mi sento impotente nella mia difficoltà a migliorarmi. Ma ci sto provando.
Fonti: Uno studio dell’organizzazione HOPE Not Hate (2020) su 2076 cittadini britannici lo evidenzia; vi invito anche ad ascoltare il podcast Oltre, un’inchiesta sull’universo incel italiano.
Adolescence ha dunque portato in maniera “violenta” il sottoprodotto dell’odio a una larga parte della nostra società, lasciando ampio spazio all’interpretazione dello spettatore e rischiando di indirizzare chi si informa verso quella rete di odio e incomprensione che la serie stessa intende criticare.
Un ulteriore tema di rilievo riguarda il femminicidio: si parla, probabilmente per la prima volta, di questo argomento in una serie dalla risonanza enorme, anche se la vittima viene relegata in disparte, in un angolo cieco della narrazione, poiché l’attenzione si concentra maggiormente sulle motivazioni e sul movente dell’omicida. Questa scelta narrativa non mi ha convinto e, anzi, mi ha infastidito.
Sembra che l’intento fosse quello di far empatizzare prima e, in seguito, indurre un senso di colpa per aver sperato nel protagonista. Il tutto riequilibrato nel finale, quando Jamie confida al padre: “Voglio dichiararmi colpevole al processo.”
Il femminicidio, un atto grave e diffuso, mi è parso trattato come se fosse una colpa subita più che un crimine consumato, sollevando la domanda se la serie non voglia mostrare come il risultato della manosfera sia una sequenza di giustificazioni che avallano l’atto persecutorio o maschilista nei confronti della donna.
Fonti: In Italia, negli ultimi quattro anni, si sono registrati circa 600 casi di femminicidio. (Link: Analisi delle sentenze di femminicidio – Ministero di Giustizia)
Una scena particolarmente inquietante è quando Jamie afferma che, dopo averla uccisa – pur rifiutandosi di ammetterlo completamente, poiché la vita della donna appare come priva di un reale valore – non l’ha toccata, né abusato del suo corpo.
Questo passaggio, tra i più significativi della serie, rivela una cultura che ci circonda e che tendiamo a rifiutare: una cultura che ha trasferito gran parte della nostra esperienza online, rendendo la realtà quasi traslata in immagini e video, e facendo dimenticare che le regole del mondo reale sono ben diverse da quelle di un intrattenimento filtrato.
Alla luce di ciò, torniamo alla domanda più profonda della serie: da dove nasce l’odio e l’incomprensione che permeano l’esperienza di Jamie?
LE COLPE DEI PADRI
La serie mette in evidenza come Jamie e suo padre condividano, in due momenti distinti, lo stesso ricordo, seppur da prospettive diverse, legato alla mancanza di uno sguardo paterno e alla vergogna condivisa.
Un passaggio significativo è quando il padre di Jamie confida alla madre del ragazzo che suo padre lo picchiava con delle cinghiate e che lui si era ripromesso di non ripetere quell’errore se avesse avuto dei figli.
Durante la visione, è emerso un tentativo narrativo di ruotare attorno alla figura paterna, quasi come se essa rappresentasse la matrice del movente di Jamie e dell’atto stesso.
Tuttavia, occorre fare un passo indietro per evitare banalizzazioni: il padre di Jamie non è la causa unica, ma piuttosto il risultato di una dinamica più complessa. Il fatto di non ripetere le proprie esperienze negative non basta a esonerare; occorre analizzare il concetto di genitorialità, che troppo spesso viene inteso come un tratto passivo, quasi genetico, anziché come una scelta consapevole e attiva di essere un genitore.
La vera questione non è picchiare il figlio con una cinta (come si è subito nel proprio passato), ma riformare il concetto di genitorialità, riprogrammando il modo di concepire il rapporto con i propri figli. L’obiettivo è accompagnare i ragazzi nello sviluppo di una resilienza che li sostenga anche nei momenti più difficili, rendendoli partecipi di un percorso di crescita basato sulla consapevolezza e sull’accettazione di sé.
È fondamentale riconoscere che, se a 13 anni non hai avuto un’esperienza sessuale, va bene – anzi, è normale. Se invece lo sport non ti appassiona e preferisci l’arte, spetta a un genitore offrire lo spazio e il supporto per coltivare quella passione. Un ragazzino può cambiare idea e passare da un interesse all’altro; il ruolo del genitore è di guidarlo, aiutandolo a scoprire e sviluppare il proprio potenziale, elementi intangibili che si costruiscono col tempo. Vivere il presente senza cercare di controllarlo eccessivamente, concedendo la libertà necessaria alla crescita, è essenziale.
Non basta, infatti, limitarsi a non ripetere il proprio passato: tale approccio, da solo, può condurre a risultati deludenti, trasformando il figlio in un giovane vigliacco, aggressivo e insicuro. Avviare una terapia di coppia o individuale solo dopo un evento traumatico, come un arresto, è pur sempre un inizio, ma non la soluzione completa.
Procreare è solo l’inizio, tutto il resto del lavoro non deve essere appannaggio dei figli ma di tutto il complesso familiare. La matrice quindi non si deve ricercare in una sola figura ma in tutta la famiglia, nel concetto di casa e di accoglienza, di ascolto e comprensione, di struttura comune di sostegno che però non si sostituisce a te ma ti propone strumenti con i quali esplorare soluzioni.
Giocare alla vita è sano, vedere la vita come un gioco no.
La serie mi ha offerto spunti di riflessione significativi e, personalmente, mi ha spinto a voler approfondire ulteriormente le tematiche affrontate.
Grazie per avermi letto,
A presto,
Sam